Lettera d’amore per la maestra d’acrobatica

lettere non inviate – 2013

 

Da piccola non facevo la ruota, te ne sarai accorta… non ero una di quelle bambine che saltano i fossi. Anzi.

Non ricordo come usassi il corpo a dire il vero, da piccola. Forse perché non lo usavo, lo tenevo lì con me ed era il covo delle mie paure e basta.

Giocavamo, io e mia sorella, più che altro usando la fantasia. Inventavamo storie e personaggi.

Così, mentre il mondo intorno seguitava nella sua follia, che in silenzio e senza farsi accorgere entrava anche dentro di noi, mentre cadeva il muro, mentre cresceva la gobba di Andreotti, mentre la mafia faceva saltare le macchine dei giudici, noi ce ne stavamo lì, in questo rifugio incantato.

Così da piccola non correvo, non giocavo con la palla e niente spazi verdi. C’era il salone di casa che diventava capanna, sala da ballo, castello incantato di fantasmi e mostri. C’era la fantasia.

E tu? Non sai quante volte me lo chiedo, cosa nascondi in quegli occhi celesti. In quel silenzio, in quella concentrazione che ti accompagna qualsiasi cosa fai. E dove vai quando col tuo casco integrale prendi il motorino e parti. Ti seguirei, se potessi, ma certamente verrei scoperta! Certo che è difficile desiderare cosi, in silenzio. Non dire mai niente. Non mostrare che segnali immaginari. Sfiorarti con un fremito reale senza che tu te ne accorga, aspirare il tuo odore quando passi. Come una maniaca. Sognare realtà parallele nelle quali mi prendi con mani sicure, mi porti dentro al tuo camerino e ne approfitti di un momento di generale confusione per baciarmi, tenermi sulle tue gambe, stringermi. Poi continui a lavorare e per il resto del giorno non mi lancerai che sguardi furtivi, in attesa della notte, che ci unirà ancora.

Tutto falso. I giorni proseguono e non c’è ombra della mia fantasia su questa terra.

Ricordo ancora quando siamo cresciute, io e la mia sorellina. Improvvisamente i giochi si interrompevano a metà, non regalavano più lo stesso entusiasmo di prima. Quando eravamo annoiate ogni tanto una delle due proponeva…e l’altra…inesorabilmente…declinava l’invito. Ricordo che a un certo punto avevamo piena coscienza di ciò che stava succedendo. Se neanche oggi giochiamo, ci dicevamo, va a finire che non giochiamo più. E un bel giorno non giocammo più.

Una delle cose che mi piace di te e che sei arrivata qui, sulla collina, e ci sei rimasta. Chi ti smuove più. Nessuno sa se hai un amore, un cane, un amico. Solo sei arrivata qui e nn sei andata più via.

Io invece come una trottola mi sono specialmente occupata di seminare nei luoghi la mia assenza.

A volte desidero sentirti vicina. Sentire il tuo respiro. Sogno di addormentarmi tra le tue braccia, dopo averti amato, senza parlare, che le parole, secondo me, non servono proprio.

Io so dire tutto con gli occhi, se voglio. Vorrei parlarti con gli occhi solo per poter stare lì e guardarti. E poi mi chiedo, come potremmo fare per stare insieme? Ti verrei a trovare? Aspetterei tutto il giorno nella tua casa e ti preparerei la cena. Poi tu faresti tardi, presa come sempre dal lavoro, ed io sarei un po’ triste aspettandoti, magari penserei che non mi vuoi abbastanza, ma me la farei passare, perché so che sarebbe un argomento inutile con te. Torneresti sfinita e tra le mie braccia ti regalerei riposo.

Una volta, tra i banchi della scuola elementare che frequentavo sporadicamente e di mala voglia, mi ritrovai a parlare con l’astuccio delle matite. Era proprio simile ad una grande bocca, e la cerniera erano i denti. Così si muoveva, si apriva e si chiudeva, e parlavamo, parlavamo, parlavamo.

Quando uscii dall’incanto vidi un compagno che mi osservava, commentò qualcosa stranito, anzi decisamente disgustato.

verso la quarta elementare la mia vita cambiò grazie a Giada, la bambina più quotata della classe, che improvvisamente iniziò a trovarmi simpatica. La facevo ridere.

Prima di allora era stato un dramma. La ricreazione e l’ansia che nessuno mi invitasse a giocare a palla unita all’ansia che qualcuno mi invitasse e fossi costretta a mostrare la mia goffagine. Tornando a Giada, lei aveva già il suo fedele seguito, le altre bambine facevano a gara per avere la nomina di “migliore amica”. Io non aspiravo a tanto, mi bastava non essere più bersaglio delle piccole cattiverie tipiche di quell’età.

Ho parlato di te con mia sorella, ed anche con qualche amica. Tutte mi dicono di invitarti a prendere una birra, di chiederti cosa si fa qui in collina nelle lunghe domeniche. Io qui le passo da sola, suonando, cantando, guardando film. Purtroppo seguire i loro consigli per me è impossibile.

Oggi eri nervosa, inquieta, stanca. Ma com’eri bella sui trampoli col rossetto rosso e il tuo sorriso.

Col tuo vestito bianco che stringe sotto il seno e poi va giù lungo di veli. Non riuscivo a guardare che te.

Come ti stavo raccontando, poco tempo dopo essere entrata nelle sue simpatie, di Giada ero già innamorata. Ricordo le sue labbra carnose ed il mio desiderio intenso di baciarle.

Durante questi mesi ho immaginato molte volte cosa, quando e come.

Eravamo sul tuo letto, che immagino grande, nude e vicine.

mi hai chiesto chi sono.

Chi sono io?

Preferirei parlare con gli occhi, e basta. Parlarti con le mani, con la pelle, con gli odori, con i capelli che mi cadono sul viso.

A te piace chiacchierare, anche se non sembra.

L’ho capito in macchina, tornando dagli spettacoli. Chiacchieri e chiacchieri. Quante cose di cui parlare senza che mai traspaia niente di te. Ti ho vista scrivere un messaggio durante il ritorno, a tarda notte, e mi sono chiesta per chi fosse. E sono diventata gelosa.

Si fa buio. Ho passato questa giornata cantando una canzone. Sempre la stessa canzone. Nel seminterrato umido che chiamano “Sala degli Archi”.

M’importa dove sei, perché non sei qui.

Musica, musica tutto il giorno.

W.