Amor Randagio

Racconto breve – 2009

“Io ho dei figli”

Mi sussurra.

Blatera dentro i miei padiglioni auricolari.

“E’ solo per questo che sto ancora con lui”

Mi addenta, mi spolpa, mi afferra da dietro e mi solleva. Che forza…chi l’avrebbe detto.

Ma come ci sono arrivata qui, mi chiedo, osservando le mura cascanti e verdi di muffa del bagno, e lei avvinghiata alla mia giugulare, incidendola con i suoi tre denti anteriori.

E’ andata così.

Solo qualche ora prima me ne sto seduta a bere, mentre nel locale si suona musica dal vivo. Sono da sola. Dopo la prima birra vengo invitata a un tavolo. La moglie del cantante è bella cotta. Vuole ballare con me, l’accontento.

Capisce dopo che non sono un ragazzetto efebico. Sono una donna.

La birra scorre a fiumi in boccali da mezzo litro.

La osservo in viso questa donna, non è brutta. Solo i denti sono andati via, l’alcool.

Il suo uomo e’ uno smilzo di quelli simpatici, finisce di cantare e viene al tavolo a rimpossessarsi della scena.

Ho una chitarra con me, per questo mi prendono e mi trascinano fuori dicendo di voler andare a suonar in un posto tranquillo.

Ho già perso la cognizione di dove mi trovo.

Passeggiavo per un quartiere sconosciuto tra le macerie di un mercato prima di infilarmi in quel posto, attratta dalla musica.

Vaghiamo tra strade in penombra, calpestando i resti maleodoranti di cibo. I cani fanno festa. Gli uomini invece si nascondono dietro alle cose, strisciando lungo i muri, come esseri vergognati.

Entriamo in uno di quei negozietti onnicomprensivi, dove ti vendono tutto, dalle uova alla birra, alla zuppa di pollo, al sapone.

Due tavoli sgangherati e un pisciatoio dietro al muro rendono questo posto anche un’ottima bettola.

Lui prende la chitarra e inizia a cantare, a suonare, con quanto fiato ha in gola e con tutta l’istrionica convinzione del mondo.

E beviamo, come se perdere i sensi in quel modo sia l’unica cosa da fare.

Lei adesso quasi non ce la fa neanche a parlare, però ha ancora delle forze da utilizzare insidiandomi.

La sua mano impertinente, il suo sguardo trascinato fino a me.

Si alza per andare in bagno e mi afferra per un braccio.

E’ esattamente così che, infine, mi ritrovo tra queste mura cascanti e verdi di muffa.

Sono istanti, o qualche minuto, non so. Mi sbatte contro la porta e facciamo rumore.

Mi mangia.

Dice che sta con lui solo per i suoi figli.

E intanto lui, con i due vecchietti del tugurio, sono lì dietro e ci chiamano, per assicurarsi che tutto vada bene.

Ed io mi sento in un film, dove esco dalla porta e chissà che succederà. Magari stavolta le prendo.

Mi dice che adesso sono sua, che ormai…ormai non vado più via.

Farnetico che invece vado via, presto, ma lei può star bene, in qualche modo.

Chissà che le dico in realtà. Mi si confondono le emozioni.

Sono finita dentro al dolore di una sconosciuta.

Quando torno a scivolare tra la panca e il tavolo sedermi,

so che il mio collo è segnato inconfutabilmente da un paio di potenti morsi.

Lui è di fronte a me e non gliene importa un fico secco. Continua a cantare e a bere.

Lei crolla con la testa sul tavolo, e rimane così.

Si alza un paio di volte per andare in strada a vomitare e poi torna nella stessa posizione.

Si becca un paio di insulti.

I due vecchietti del negozio mi chiamano e mi accosto a loro.

“Stai attenta con chi vai”

mi dicono.

E poi di tornare la domenica, per il brodo di gallina ruspante.

Ma se non so neanche dove mi trovo…

Ci separiamo.

Lui cerca di invitarmi a bere ancora, a tornare al locale.

Lei è fuori di sé.

Si infilano di nuovo al bar.

Vado via, abbandonando questo brandello di umanità nel suo dolore. Sono appena le nove di sera, sarà una lunga notte.